20 Aprile 2024
Il terzo occhio

Sindone e monete bizantine

Articolo di Simonetta Mottino

Alcuni mesi fa sono incappata in una notizia singolare, riportata da quasi tutti i principali quotidiani nazionali: la Sacra Sindone di Torino potrebbe essere nuovamente datata grazie alle tracce di monete bizantine. La ricerca, intitolata “Do gold particles from the Turin Shroud indicate its presence in The Middle East during The Byzantine Empire?”, è stata pubblicata nel settembre 2019 dal Journal of Cultural Heritage, ed è firmata dal Prof. Giulio Fanti, docente presso l’Università di Padova, e dal Dott. Claudio Furlan, dello stesso ateneo. Incuriosita, ho cercato il paper originale per verificare in prima persona che la notizia fosse stata riportata correttamente, e per sapere di più sul lavoro svolto.

Breve premessa: è importante sapere che nel secolo scorso vennero approvate solamente tre tornate di studi tecnico-scientifici sulla Sacra Sindone. Nella prima, dal 1969 al 1973, con la Commissione Pellegrino, il telo fu esaminato a occhio nudo, microscopio, luci UV e IR e fotografato; inoltre furono campionate delle fibre. [1] Nel 1978 un’apposita commissione americana (STURP) e un gruppo italiano di tecnici effettuarono, fra l’altro, alcuni prelievi tramite nastro adesivo ed aspirante, sia dal telo sia dalla teca che la conteneva. Nel 1988 invece furono prelevati altri pezzi di lino e fu effettuata una nuova aspirazione. [2, 3]

Da allora, nessun tipo di indagine sulla reliquia è stato concesso.

Le basi dell’articolo di Fanti e Furlan

Partiamo dall’idea di base dello studio: è possibile datare un reperto tramite particelle estranee presenti sul reperto stesso? È un procedimento azzardato, specie quando è possibile datare un oggetto come la Sindone utilizzando il metodo del C14 sulle fibre. La radiodatazione del carbonio-14 è una misurazione della quantità di carbonio radioattivo residuo presente in reperti organici quali ossa, legno e fibre tessili. Un’analisi già effettuata, proprio sui campioni prelevati nel 1988. Un articolo pubblicato su Nature nel febbraio 1989 riassume il risultato del lavoro indipendente di tre differenti laboratori accreditati (Tucson, Oxford e Zurigo): la Sindone è risultata un manufatto di epoca medievale, indicativamente prodotto tra il 1260 ed il 1390 d.C. Il periodo di datazione è coerente con le prime fonti storiche sulla reliquia. [4]

Questione chiusa dunque? Così non sembra. Quello che Fanti e Furlan sembrano voler cercare di fare è confermare la teoria che la Sindone sia identificabile con un’altra reliquia più antica e andata perduta, il Mandylion di Edessa, ipotesi che non sembra avere riscontro storico. Il Mandylion era infatti una sorta di “fazzoletto”, dunque diversissimo dal telo sindonico. La leggenda narra che il morente re Abgar chiese un ritratto a Cristo: questi in risposta si asciugò il sudore sul fazzoletto e vi lasciò impressa la sua immagine. Il re guarì toccando la reliquia, recapitatagli da un emissario, e da quell’avvenimento il Mandylion fu venerato nella città di Edessa. L’originale, salvato dal sacco di Costantinopoli del 1204, fu portato a Parigi nel 1240 e acquistato dal re Luigi IX di Francia nel 1247, rimanendo nella capitale francese fino al 1793, finché non fu distrutto durante i moti rivoluzionari. [5] Attualmente esistono due presunti Mandylion in Italia: quello di Genova e quello di Roma, che tuttavia risultano essere dipinti per mano dell’uomo e non acheropiti, ovvero impressi “divinamente”.

L’elettro

Il lavoro di Fanti e Furlan si concentra sugli aspirati di cui abbiamo parlato: da questi vengono rilevate tracce di particelle di leghe a base di oro (Au), argento (Ag) e rame (Cu). I due studiosi cercano  di stabilire una connessione tra queste particelle e monete di epoca bizantina, per utilizzare questi frammenti per proporre una differente datazione del telo.

Vediamo adesso nel dettaglio la questione delle particelle d’oro individuate: possono essere datate? No. Si può eventualmente studiarne la composizione, ma un minuscolo frammento di lega metallica non può essere collocato in un’epoca precisa. Sarebbe differente per una moneta o per un reperto integri, perché potrebbe esserne valutato lo stile, ma non è questo il caso.

È corretto affermare che l’elettro, o electrum, sia una lega di oro-argento-rame tipica dell’attuale Turchia e che sia stata utilizzata tra il VII e XIII secolo nell’Impero Bizantino? No, e la spiegazione è un poco complessa.

L’oro (Au) è presente in natura in diverse forme, generalmente accompagnato dall’argento (Ag, il cui contenuto in lega con l’oro può variare da tracce al 50%). Il rame (Cu) è, in questo caso, presente in quantità minore al 2%, ma sono rilevabili anche tracce di numerosi altri metalli inclusi ferro, stagno ed il gruppo del platino.

Tradizionalmente l’oro con più del 75% è descritto come oro puro. (La lega oro-argento con una percentuale di oro compresa tra 5 e 50% è definita argento dorato, mentre quella con una percentuale inferiore al 5% è considerata argento con poco oro.)

L’elettro è un minerale che contiene naturalmente oro (<75%), argento e altri elementi quali rame e tracce di stagno, piombo e ferro. [6] Sebbene il nome derivi dal greco antico ἤλεκτρον (èlektron), che significa “ambra”, la lega in questione è in realtà di color oro pallido; già Erodoto l’aveva soprannominato oro bianco, perché visivamente diversissimo dall’oro giallo. In Lidia veniva raccolto dal limo dei fiumi Ermo e Pattolo e lì fu utilizzato per le prime monete intorno al 700 a.C., fino a cadere in disuso perché sostituito da monete di oro ed argento puri dalla riforma monetaria del re Creso (561-546 a.C.). [7] Tuttavia la regione dell’attuale Turchia non era l’unica nel bacino del Mediterraneo in cui questa lega naturale poteva essere raccolta, poiché già nell’antico Egitto era disponibile ed ampiamente utilizzata.

Bisogna infatti notare che ancora oggi l’oro non è mai venduto in forma pura (il cosiddetto 24 carati), ma è disponibile in commercio in leghe ottenute artificialmente a 22, 18, 14 e 10 kt. L’oro commercializzato è legato ad altri metalli, tra cui il già citato argento, oppure rame, o platino etc in base alla caratura e al colore desiderati, come confermato anche da moderni manuali di oreficeria. Non è dunque lecito ignorare arbitrariamente leghe di questi metalli che potrebbero avere contaminato la Sindone per almeno otto o nove secoli successivi.

Oltre a considerare le differenti percentuali di oro presenti in una lega dunque, per capire di quale materiale si tratta e per stabilirne la naturalità è necessario valutare tutti gli elementi che lo compongono: ad esempio, determinate quantità di piombo possono anche indicare fattura umana, anche se non deve essere considerata una regola fissa. [6] Questo perché metalli preziosi come oro e argento venivano raffinati, ad esempio tramite un procedimento chiamato coppellazione, che poteva contribuire ad aumentare o diminuire la percentuale di piombo presente. Non è quindi possibile svolgere una corretta analisi estrapolando e scartando in maniera totalmente casuale dati e parte di essi.

Ma non è tutto: l’unica comparazione svolta nel lavoro di Fanti riguarda solo le monete del cosiddetto Impero Bizantino, e nessun altro tipo di oggetto aurico utilizzato nella penisola italica dal Medioevo ad oggi. Per giunta, l’Impero Bizantino non può essere considerato come un unico blocco da cui attingere monete, perché nel corso dei secoli il suo assetto geo-politico mutò notevolmente.

Si tende a considerare differente la monetazione dell’Impero Romano d’Oriente da quella dell’Impero Romano d’Occidente a partire da Anastasio I (il cui regno durò dal 491 al 518 d. C.), e la sua fine con la morte di Costantino XI (e la caduta di Costantinopoli il 1453 d.C.). Vari furono i territori persi e/o annessi, numerosi gli imperatori che talvolta modificarono la monetazione, introducendo o eliminando nuove valute; in questo contesto, le zecche che producevano monete erano sparse per l’intero dominio. Intorno al VI secolo, ad esempio,  erano presenti officine a Costantinopoli, Tessalonica (Grecia) Nicomedia e Cizico (Turchia), Antiochia (Turchia), Alessandria (d’Egitto) Cartagine (Tunisia), Roma e Ravenna; zecche minori a Catania, Siracusa, Cherson (Ucraina), Cipro, Alessandretta (Turchia).

La provenienza non può quindi essere stabilita precisamente, a meno che non si considerino alcuni segni di zecca che venivano raramente utilizzati, e che comunque non risultano univoci. [8]

Ci tengo a sottolineare che la questione numismatica nel mio scritto è solamente accennata: non rientra propriamente nel mio campo di studi ed è davvero molto ampia e complessa, più di quanto presentato da Fanti e Furlan.

L’analisi

L’articolo riporta che è stata eseguita una spettroscopia EDS (Energy Dispersive X-ray  Spectroscopy), anche chiamata EDX (Energy Dispersive X-ray spectroscopy), per analizzare le particelle rilevate: scelta potenzialmente corretta se si vuole ottenere la composizione esatta del campione senza distruggerlo. Tuttavia è presente una gravissima anomalia: si assume che le particelle siano composte solamente da Au, Ag e Cu.

I picchi degli spettri di emissione sono unici, e permettono di conoscere con assoluta certezza gli atomi presenti nel campione e la loro quantità: nel file allegato al paper alcuni picchi sembrano essere stati volutamente ignorati.

Non è tutto: non è sufficiente citare eventuali impurità rilevate, perché qualunque tipo di analisi effettuata deve avere un riscontro concreto, dei dati, che in questo caso risultano piuttosto confusi. Nel paper originale vengono curiosamente elencati elementi come silicio, alluminio, calcio e sodio, non indicati in maniera esplicita negli spettri di emissione; viceversa, nell’allegato sono riportati picchi di carbonio e ossigeno che non figurano altrove.

Come già scritto, l’elettro è un minerale sì composto da Au e Ag, ma sono necessariamente contenute anche tracce di altri elementi metallici che non possono essere trascurate. Queste devono essere raccolte per avere un confronto accuratissimo: possono dare la certezza che si tratti della lega naturale e non di una forgiata dall’uomo, ed eventualmente possono suggerire similitudini con manufatti di vario genere.

Ma il lavoro di Fanti e Furlan cerca sempre di correlare ogni composizione esclusivamente a manufatti bizantini (purché antecedenti al 1355, quando la Sindone è attestata in Francia). Nelle conclusioni viene detto infatti (traduzione mia):

Le particelle del gruppo 1 (24 carati, Au 100%) potrebbero essere ben confrontate con le monete datate dal 692 al 1025 A.D. […] Le particelle del gruppo 2 e 3 mostrano concordanza con lo svilimento dell’oro, specialmente fino al 1180 che sono in accordo con le particelle della Sindone dei gruppi dal 4 al 6 che raggiungono una maggiore percentuale di oro con la cosiddetta lega elettro (8-20 carati, Au 33-85%). Il valore più basso di oro (Au 33-35%) è evidente nel gruppo 6 sotto l’imperatore bizantino Manuele I (1143-1180) dove abbiamo trovato il più alto livello di argento (Ag 51%) e rame (Cu 14%).

In altre parole: le particelle di oro puro coinciderebbero con alcune monete, quelle con il 33-85% di oro con altre, quelle con il 33-35 % di oro con altre ancora. Gli autori stessi, poco dopo, sono infatti costretti ad ammettere che:

“[questo] articolo non è in grado di dimostrare con certezza la provenienza della Sindone dall’Impero Bizantino, nonostante il rilevamento sulla Sindone delle particelle della lega elettro sia un fattore discriminante che non deve essere dimenticato nella ricostruzione del viaggio della reliquia.”

Fanti e Furlan dimenticano poi di citare uno degli avvenimenti storici documentati più importanti nella storia della Sindone e, allo stesso tempo, un’importante contaminazione da metallo prezioso: l’incendio a Chambéry del 1532, in cui la reliquia fu gravemente danneggiata dall’argento fuso del cofanetto che la conteneva: i segni della combustione sono quelli ancora visibili oggi, piuttosto simmetrici perché il telo era ripiegato [2]. Il cofanetto è andato distrutto, quindi non conosciamo la sua composizione chimica. Si può provare ad ipotizzare che fosse davvero in argento, molto probabilmente legato a qualche altro elemento prezioso.

È interessante considerare un recentissimo scritto del sindonologo Pierluigi Baima Bollone, il quale ha analizzato con la stessa tecnica del lavoro di Fanti e Furlan alcuni vecchi fili campionati dalla Sindone nel 1978. In questo caso sono state trovate e analizzate un gran numero di particelle metalliche e loro leghe, ritenute in sostanza normale inquinamento ambientale (anche moderno):

“[…] sono state osservate particelle metalliche, tra cui spicca l’abbondante presenza di ferro (anche in forma di microsfere), oltre a ferro/cromo, ferro/cerio/lantanio, cerio/lantanio, oro, argento, oro/argento, oro/argento/rame, rame, rame/zinco, alluminio, alluminio/oro, stagno, piombo, piombo/bromo, piombo/stagno, piombo/titanio/cromo, mercurio, mercurio/argento, mercurio/piombo, mercurio/piombo/stagno/bismuto, bario/solfo, bario/titanio, titanio.” [10]

Una difformità di materiali metallici provenienti dalla stessa reliquia che non sembra avere altra spiegazione se non la volontà di concentrarsi solamente su alcuni particolari.

Un altro aspetto trascurato da Fanti e Furlan, ma non per questo irrilevante: la presenza di carbonato di piombo, solfuro di mercurio e solfato (e/o solfuro) di argento insieme alle particelle ritenute d’oro. Interessantissimo, considerato che il primo è volgarmente noto come “biacca”, una pittura bianca; il secondo è invece un minerale rosso di nome cinabro, da cui si è ricavato nel corso dei secoli il colore vermiglione e che veniva utilizzato nell’antichità per l’estrazione dell’oro. È da sottolineare che la presenza di questi materiali non sia cosa da poco, perché sono dettagli che richiamano un dipinto e dell’oro lavorato.

Lo studio in questione è quindi molto traballante: sembra voler dimostrare a tutti i costi un punto, ignorando le evidenze contrarie per sostenere le proprie convinzioni, più che seguire le vie della scienza attraverso le prove.

Note

[1] Nicolotti, A. 2015. Sindone: storia e leggende di una reliquia controversa. Torino: Einaudi.

[2] Riggi di Numana, G. 1982. Rapporto Sindone 1978-1982, Torino: il Piccolo-

[3] Riggi di Numana, G. 1988. Rapporto Sindone (1978-1987). Milano: 3M.

[4] Damon, P. E. et al. 1989. Radiocarbon dating of the Shroud of Turin. “Nature”, n. 337, pp. 611-615.

[5] Nicolotti, A. 2015. Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino (seconda edizione).  Alessandria: Ed. dell’Orso.

[6] Johnson, P. T & Shaw, I. 2000. Ancient Egyptian Materials and Technology. Cambridge: Cambridge University Press.

[7] Konuk, K. 2012. Asia Minor to The Ionian revolt, in Metcalf W. E. (a cura di). The Oxford Handbook of Greek and Roman Coinage. Oxford: Oxford University Press.

[8] Grierson, P. 1982. Byzantine Coins. Berkeley: University of California Press.

5 pensieri riguardo “Sindone e monete bizantine

  • Costantinopoli cade nel 1453.

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    • Grazie mille per la segnalazione Antonello! Ho provveduto a correggere la data. SM

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  • A’ ntonello… nel 1453 cade in mano ai Turchi! In mano ai Crociati cade nel 1204. Li quali si fregano, tra le tante cose, anche la Sindone.

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    • Mi riferivo alla caduta di Costantinopoli e alla morte di Costantino XI, avvenuta nel 1453 e non nel 1493, come afferma l’articolo.

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