16 Aprile 2024
Osservatorio apocalittico

World War Z e la sindrome americana dell’apocalisse zombie

Negli Stati Uniti è stato un bestseller e in Italia sta vendendo molto bene: World War Z. La guerra mondiale degli zombi, docu-fiction di Max Brooks (figlio del regista Mel Brooks) e seguito del fortunato Manuale per sopravvivere agli zombi, è il libro da cui è stato tratto World War Z, il film di Marc Forster con Brad Pitt nei panni del protagonista che racconta l’inizio di una guerra mondiale tra gli esseri umani e gli zombie, umani contagiati da un virus sconosciuto che li trasforma in non-morti, ossessionati dall’istinto di mordere e contagiare altre vittime. Con un titolo così era del resto difficile non vendere bene in un paese, gli Stati Uniti, che negli ultimi due anni ha visto esplodere un’autentica sindrome apocalittica incentrata proprio sugli zombie. La serie del National Geographic Doomsday Preppers, trasmessa recentemente anche in Italia col titolo Gli apocalittici, ha puntato molto il riflettore sul fenomeno dei preppers, gli americani che si preparano a un possibile evento catastrofico di portata apocalittica. Sarebbe interessante sapere quanti preppers abbiano letto il libro di Max Brooks.

La paura di un’apocalisse zombie gode di un solido radicamento nella mentalità complottista contemporanea. I timori su possibili effetti collaterali sconosciuti dei vaccini, per esempio, hanno alimentato la moderna diffusione di campagne anti-vaccinazione. Nel film Io sono leggenda (2009), ultima trasposizione del fortunato romanzo sui vampiri di Richard Matheson, un contagio apocalittico trasforma l’intera umanità in non-morti, a causa delle conseguenze impreviste di un vaccino per il cancro. Il timore di esperimenti genetici incontrollati in grado di diffondere virus creati in laboratorio, capaci, in breve tempo, di annientare la popolazione mondiale è un’ossessione che discende dalle teorie del complotto sulla natura artificiale dell’HIV ed è stato alimentato di recente dalla moratoria chiesta dalle autorità americane sugli studi del virus H5N1, di cui gruppi di scienziati in diversi laboratori nel mondo avevano creato una versione altamente letale e contagiosa, per finalità scientifiche. La paura di una sua diffusione – accidentale o per opera di terroristi – ha convinto gli Stati Uniti a mettere la sicurezza al di sopra dell’interesse scientifico.

Il modo in cui queste notizie vengono rielaborate dall’opinione pubblica alimenta ansie complottiste o catastrofiste come la sindrome dell’apocalisse zombie, che World War Z ha cercato di sfruttare per trarne guadagno. Il fenomeno è esploso nel maggio 2011 sulla base di un incauto slogan coniato dal Center for Disease, Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti. Allo scopo di sensibilizzare i cittadini americani sul tema dell’emergency preparedness (la preparazione a un’emergenza), il CDC aveva pubblicato un volume a fumetti intitolato Preparedness 101: Zombie Apocalypse. Lo scenario di un’apocalisse zombie era stato utilizzato dal CDC per dare suggerimenti riguardo all’utilità di fare scorte di acqua, cibo, medicinali e generi di prima necessità in vista di potenziali catastrofi come uragani, alluvioni e terremoti. Una trovata per rendere divertente un tema molto poco simpatico, quello delle conseguenze dei disastri naturali, eventi imprevedibili, alla stregua appunto di un’apocalisse zombie.

Avvicinandosi la fatidica data del 21 dicembre 2012, siti e forum catastrofisti americani vennero presi d’assalto. Gli utenti si domandavano se il CDC non stesse mettendo i cittadini statunitensi in allerta nei confronti di una possibile epidemia di zombie, nascondendola dietro una storia solo apparentemente di fantasia. Da un giorno all’altro sono sorti corsi di preparazione all’invasione dei morti viventi. Per esempio, all’Università del Michigan nell’estate 2012 si è svolta una summer school dal titolo “Sopravvivere all’imminente apocalisse zombie: catastrofi e comportamento umano”. A tenerla è stato il professor Glenn Stutzky, psicologo interessato all’analisi dei modelli comportamentali. Nel New Jersey un circolo di caccia ha istituito un corso di sopravvivenza contro gli zombie. Nel Worcestershire, in Inghilterra, si è tenuto un analogo corso di difesa contro gli zombie con tanto di utilizzo di armi simulate.

Nel giugno 2012, nella cittadina di Bangor, nel Maine, USA, più nota per essere la città di residenza di Stephen King, si è svolta addirittura una Giornata dell’Apocalisse Zombie: un’esercitazione voluta dalle autorità locali per verificare la tenuta delle strutture di emergenza in caso di un’improvvisa pandemia globale. La metafora dell’apocalisse zombie è stata presa alla lettera: i cittadini di Bangor sono stati truccati da zombie (grazie a un make-up artist esperto nella simulazione di ferite per corsi di addestramento sanitari e militari) con tanto di litri di ketchup per produrre un effetto horror più convincente. Lo scenario proposto era quello di un’improvvisa pandemia virale proveniente dalla Giamaica capace di trasformare le vittime in morti viventi con l’unico scopo di contagiare i propri concittadini sani. Nell’esercitazione, le persone morse dagli zombie dovevano correre al più vicino centro di soccorso per ricevere il vaccino prima di diventare zombie a propria volta. In tal modo è stato possibile, secondo gli organizzatori, verificare che percentuale della popolazione sarebbe stata contagiata.

Non c’è da stupirsi se, leggendo la notizia, migliaia di persone si siano chieste dove finisse lo scenario immaginario e dove iniziasse la realtà. Soprattutto considerando le ansie che negli ultimi anni hanno accompagnato pandemie come quelle dell’influenza aviaria e dell’influenza H1N1. Qualcuno, non solo lo scrittore Max Brooks, ha cercato di trarre profitto dalla nuova moda degli zombie. Per esempio la famosa azienda di munizioni Hornady ha messo sul mercato agli inizi del 2012 una linea di munizioni per armi da fuoco chiamata Zombie Max, vendute all’interno di una scatola su cui spiccavano macchie di sangue e gli occhi famelici di un morto vivente. Lo slogan scelto per accompagnare la line di prodotti è “just in case”, ossia “solo nel caso”, ovviamente di un’apocalisse zombie!

L’apice della sindrome si è avuto tra maggio e giugno 2012. Tre casi di cronaca nera particolarmente efferati e apparentemente inspiegabili hanno convinto molti americani del fatto che la pandemia zombie stesse iniziando a diffondersi in tutto il mondo. Il primo riguardava un attore canadese di film porno che, dopo aver fatto a pezzi uno studente cinese, ne aveva mangiati i resti e spedito quel poco che ne era rimasto in due plichi postali indirizzati alle sedi di altrettanti partiti locali. Il secondo era avvenuto nel New Jersey, dove un uomo aveva chiamato la polizia e poi, di fronte agli agenti accorsi, si era inferto oltre cinquanta coltellate gettando le interiora addosso ai poliziotti intenti a fermarlo. Infine, a Miami, il caso più convincente riguardava un uomo fermato sotto un passaggio pedonale, completamento nudo e impegnato a divorare il volto di un clochard.

In seguito all’ondata di panico diffusasi tra la popolazione, il Centro nazionale per il controllo delle malattie e la prevenzione degli Stati Uniti era stato costretto a rilasciare un comunicato ufficiale nel quale assicurava che nessuna epidemia zombie era in atto. Da allora si è cominciato a scherzarci un po’ su, come nel caso dell’annuncio del primo ministro australiano Julia Gillard che, nel dicembre 2012, per sponsorizzare un’emittente radiofonica nazionale, aveva voluto rassicurare i connazionali sul fatto che sarebbe rimasta al loro fianco in caso di eventi apocalittici, tra cui una possibile invasione di zombie. Anche lì, naturalmente, in molti si sono chiesti se non fosse la prova generale di un annuncio più serio su una possibile minaccia all’esistenza stessa dell’umanità. Ma siamo ancora qui e finora l’apocalisse zombie  è rimasta confinata sugli schermi dei cinema e nelle pagine dei romanzi, segno che troppo spesso si tende a confondere il confine tra immaginazione e realtà.

Foto di ahmadreza heidaripoor da Pixabay

Roberto Paura

Laurea in Relazioni Internazionali, dottorato in Fisica con specializzazione in comunicazione della scienza, è giornalista scientifico e culturale per diverse testate, ha lavorato alla Città della Scienza di Napoli ed è stato borsista dell'INFN. Dal 2013 è presidente dell'Italian Institute for the Future. Dal 2019 è coordinatore del CICAP Campania. Il suo ultimo libro è "Società segrete, poteri occulti e complotti. Una storia lunga mille anni" (2021).

5 pensieri riguardo “World War Z e la sindrome americana dell’apocalisse zombie

  • Roberto Paura è un nome d’ Arte, vero? E per “macchine di sangue” sulla scatola di munizioni Zombie Max intendevate macchie di sangue, vero?

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  • Grazie per la segnalazione, corretto! 😀
    E no, Roberto Paura purtroppo non è un norme d’arte…

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  • Grazie a Te per la pronta risposta, Roberto. Certo che quel cognome è un Destino: non puoi che occuparTi di argomenti simili. Comunque noi Italiani siamo più tranquilli degli Americani, anche perché ai Morti Viventi ci siamo abituati: guarda quanti ce n’è, solo in Parlamento e in TV!

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  • Si dovrebbe chiamare un Centro nazionale di controllo delle malattie  – quelle mentali – per dare un’occhiata a quelli che pensano che sia in preparazione un’epidemia di zombie. Mi sa che sono gli stessi soggetti che da dieci anni cianciano di scie chimiche e di morgellone, che forse stanno cercando di scommettere su un nuovo cavallo…

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  • Ho la sensazione di vivere in una società paranoica.
    E pensare che abbiamo un accesso all’informazione come non si è mai avuto nella storia, eppure continuiamo ad essere più ignoranti. A seguire l’istinto invece della ragione.
    Poi c’è un desiderio di morte, o meglio, di uccidere. Uccidere uno zombie non è peccato. In fin dei conti è un mostro già morto. Fateci caso, ma cerchiamo una scusa qualsiasi per poter giustificare l’omicidio. Lo zombie, il terrorista, il ladro, l’extracomunitario…
    basta che è diverso, brutto o pericoloso, uccidilo e vai in paradiso.
    C’è una fame di morte che meriterebbe uno studio serio. Se domani riaprissimo i giochi gladiatori, sono sicuro che spopolerebbero. Gli antichi romani la sapevano lunga.

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