19 Aprile 2024
Il terzo occhio

Nemi: la terza nave che non c’era

Lo scorso aprile, nel piccolo Lago di Nemi si è svolta una specie di “caccia al tesoro”. Il fondale del lago è stato infatti scandagliato con appositi strumenti per individuare una enorme nave romana che vi sarebbe sommersa.

Solo che la nave non c’è.

O, almeno, mancano prove archeologiche e documenti storici che possano far pensare il contrario. In effetti, non ci sono nemmeno leggende al riguardo. Ne parla invece Giuliano Di Benedetti, un architetto di Genzano con la passione per la storia locale. Di Benedetti sostiene di aver scoperto l’esistenza della terza nave nel Lago di Nemi (due sono state recuperate negli anni ’30 dopo cinquecento anni di tentativi) leggendo antichi documenti. Il Comune di Nemi ha autorizzato e sponsorizzato le sue ricerche attivando una convenzione con l’ARPA Calabria[1].

Il Lago di Nemi è un piccolo lago vulcanico (1,6 Kmq) che si trova sui colli Albani. Lo specchio d’acqua ed il bosco che sorge sulle sue sponde sono luoghi di culto molto antichi[2] che i romani dedicarono a Diana Nemorense. L’imperatore Caligola scelse questo luogo per la sua residenza imperiale e vi fece allestire due grandi navi-palazzo. Misuravano rispettivamente 71×20 metri e 75×29 metri. Vi si trovavano statue, opere in muratura e marmo, mosaici, ricche decorazioni, bagni e sistemi di riscaldamento. Non è ancora certo quale fosse la loro funzione: l’ipotesi prevalente ne fa delle navi cerimoniali dedicate al culto di Iside, caro a Caligola[3].

Alla sua morte, contro di lui fu decretata la “damnatio memoriae[4], a seguito della quale le opere che lo ricordavano furono sistematicamente distrutte. Le due imbarcazioni furono probabilmente affondate per questo motivo.
Le fonti antiche non parlano delle navi di Caligola. La loro esistenza, però, già in epoca tardo imperiale e nel Medioevo, non era un mistero. Occasionalmente venivano raccolti reperti dai pescatori locali. La scarsa profondità del lago consentiva poi di intravedere le sagome degli scafi.

I tanti tentativi di recupero

Veduta aerea dello scafo della seconda nave di Nemi, completamente emerso dalle acque

Il primo tentativo di recupero di cui abbiamo notizia vide protagonista il celebre Leon Battista Alberti. Nel 1446 il Cardinale Colonna gli affidò tale incarico. Alberti impiegò una squadra di abili nuotatori genovesi che, tuffandosi in apnea da una grande zattera, avevano il compito di arpionare con degli uncini il legno degli scafi. Ma invece di trainare le navi, riuscirono solo a strappare parti dello scafo.Furono comunque recuperati alcuni reperti: tra questi, alcune fistole di piombo con il sigillo del committente, che erroneamente furono attribuite a Tiberio. Questo errore di interpretazione fu tramandato per diversi secoli successivi. L’impresa fruttò la prima dettagliata documentazione dell’esistenza delle due navi, nelle opere di Flavio Biondo da Forlì[5] e dello stesso Alberti[6].

Nel 1535, Il capitano Francesco De Marchi tentò di esplorare i fondali del lago usando una sorta di campana subacquea in legno, dotata di un oblò in vetro e di un tubo per l’aria. De Marchi riuscì in tal modo a descrivere la struttura dello scafo, le fiancate, i mosaici e le decorazioni di una delle navi. Nella sua opera “Della Architettura Militare[7], riporta il resoconto della sua impresa.

Ispirato da quel racconto, Annesio Fusconi nel 1827 decise di effettuare un tentativo simile per metodo e per scopo, utilizzando una “campana di Halley”[8]. Furono recuperati smalti, mosaici, pezzi di pavimento in marmo, chiodi e colonne in metallo, laterizi, fasciame, tubi di terracotta. Fusconi pubblicò in proposito una “Memoria archeologico-idraulica sulla nave dell’imperator Tiberio[9].

Elemento decorativo in bronzo per testa di trave, rappresentante una testa di leone che stringe fra i denti un anello

Solo alla fine del XIX° secolo, si crearono i presupposti per riportarle in superficie. Nel 1885, l’antiquario Eliseo Borghi, autorizzato dai principi Orsini, asportò molto materiale dalle due navi con l’ausilio di palombari. Lo Stato intervenne ad interrompere questo ennesimo saccheggio.
Erano già stati asportati la ghiera di un timone, decorazioni a forma di teste di felino, cerniere, filastrini in bronzo, tubi di piombo, tegole e lamine di rame e frammenti di mosaici e laterizi ed una grande quantità di legname[10]. I reperti furono acquistati per il Museo Nazionale Romano, poi fu avviato lo studio di un progetto di recupero, affidato all’ingegner Vittorio Malfatti.

Malfatti eseguì un rilievo del lago ed esplorò parzialmente un antico emissario artificiale sotterraneo, probabilmente di epoca romana[11]. Il piano prevedeva il parziale svuotamento del bacino, allo scopo di lasciare in secca le navi e consentirne il recupero. Sotto la guida dell’archeologo Corrado Ricci[12], nel 1927 il progetto ottenne il via libera. Nell’ottobre del ’28 furono avviate le pompe idrovore e riaperto l’antico emissario. Ci volle quasi un anno per portare allo scoperto la prima nave. Incidenti, frane e il maltempo misero a rischio l’impresa, ma la guida tecnica dell’ingegner Guido Uccelli[13] permise il ripristino degli impianti e la ripresa dei lavori. Alla fine del 1932 anche la seconda nave era all’asciutto. Il Museo delle Navi Romane, inaugurato nel 1940, fu costruito sul posto, per conservare ed esporre i due enormi relitti.

L’opera viva e innumerevoli reperti degli edifici e delle strutture che si trovavano sul ponte si erano conservati. La loro importanza per la conoscenza della tecnologia navale romana era inestimabile. C’erano piattaforme girevoli su rulli conici in piombo, che prefiguravano la tecnologia dei cuscinetti a sfera. E fu rinvenuta un’ancora in ferro a ceppo mobile che sbalordì il mondo della navigazione dell’epoca. Si tratta infatti di un tipo di ancora presentato all’Esposizione Universale di Londra nel 1851[14] come una grande novità. Un grande rubinetto in bronzo dell’impianto idraulico di bordo, poi, fu oggetto di discussione tra l’ingegner E. Macchi e Guglielmo Marconi[15].

La storia delle navi di Nemi finisce il 31 maggio del 1944. Un incendio doloso, appiccato nel museo da soldati tedeschi, distrusse completamente gli scafi, le ancore, un timone e alcune imbarcazioni più piccole. Si salvarono solo i reperti trasportabili, che erano stati in precedenza portati al sicuro a Roma[16].

 

La teoria di Di Benedetti e le ultime esplorazioni

Anche Giuliano Di Benedetti pare abbia tratto ispirazione dal De Marchi per la sua teoria della terza nave. Secondo la sua interpretazione, infatti, la descrizione cinquecentesca non corrisponderebbe alle navi recuperate negli anni ’30. Dunque, De Marchi doveva riferirsi ad una terza imbarcazione ancora sommersa. E si tratterebbe di una nave molto più grande, di circa 150 metri per 78.

Primo piano dell’ancora in legno con ceppo in piombo

Una simile teoria, per quanto suggestiva, presenta grossi problemi. Manca infatti qualsiasi prova storica o archeologica a supporto. E poi, appare quantomeno curioso che una nave di tali dimensioni sia rimasta nascosta per duemila anni in un lago profondo, al massimo, meno di quaranta metri. Ricordiamo inoltre che, durante il recupero delle navi, il livello dell’acqua era stato abbassato di circa venticinque metri e il lago era frequentato da archeologi e sommozzatori. Difficile pensare che nessuno abbia notato nulla.

Comunque sia, lo scorso settembre, sotto la guida dell’architetto genzanese, una squadra di sommozzatori ha compiuto una serie di esplorazioni senza risultato[17]. L’Amministrazione comunale di Nemi si è quindi attivata per ottenere dall’ARPA Calabria particolari strumenti di indagine subacquea[18] e sponsorizzare la ricerca, svolta in primavera. Quasi due mesi dopo la conclusione dei lavori, non si ha notizia di alcun ritrovamento, tranne che una barchetta da pesca affondata cent’anni fa[19] e qualche carcassa d’auto.

A questo progetto, va precisato, la Soprintendenza archeologica non ha mai partecipato, esprimendo anzi un comprensibile scetticismo. Non c’è mai stato alcun indizio che possa far pensare ad una “terza nave di Caligola”.

 

(Immagini originali conservate presso l’Archivio fotografico storico del Museo della scienza e della tecnologia L. da Vinci, Milano)

 

Note

[1] L’agenzia ambientale calabrese ha dato la sua disponibilità di strumentazione e tecnici per questa ricerca senza dover sopportare alcun costo a carico dei propri bilanci, in quanto il Comune di Nemi e le altre autorità interessate al progetto si sono offerte di finanziare in toto le spese necessarie per usufruire della strumentazione e del tecnico Arpacal, che in questi giorni non erano “occupati” da attività in campo in Calabria” (comunicato stampa ARPACAL, 3 aprile 2017)

[2] Una descrizione dei miti legati a Nemi si trova nel primo capitolo de Il ramo d’oro di J.G. Frazer.

[3] Il Navigium Isidis era una cerimonia legata all’equinozio di primavera che celebrava la rinascita, secondo il mito della ricomposizione delle membra di Osiride da parte di Iside. Consisteva nel portare in processione le statue degli dei, su navi cerimoniali, lungo il Nilo, accompagnate da un festoso corteo in maschera. Il culto si diffuse nell’Impero Romano a partire dal I° secolo e le navi divennero carri a forma di nave che attraversavano le città.

[4]Condanna della memoria“, letteralmente. Secondo il diritto latino, le persone che in vita avevano danneggiato Roma in modo particolarmente grave, dopo la morte potevano essere condannate alla cancellazione del suo ricordo attraverso la distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandare il suo nome.

[5] Flavio Biondo da Forlì, Italia Illustrata (1474). Qui un’edizione del 1542 (p. 110r)

[6] L.B.Alberti, De Re Aedificatoria, 1452. Qui, una edizione del 1541.

[7] F. De Marchi, Della Architettura Militare, 1599, Libro II. Qui in C. Fea, Miscellanea Filologica, Vol.1, 1790.

[8] Si tratta di una campana batiscopica più evoluta di quella usata da De Marchi. Fu progettata dall’astronomo Edmund Halley. Era dotata di un sistema di ricambio dell’aria e più oblò.

[9] Il libro, pubblicato nel 1839. si può leggere integralmente qui.

[10] Eliseo Borghi, La verità sulle navi romane del Lago di Nemi, Tipografia dell’unione cooperativa editrice, Roma 1901

[11] La storia e numerose immagini dell’antico emissario artificiale (lungo 1653 metri, passa sotto la cittadina di Genzano e sbuca nella valle di Ariccia) si possono trovare nella pubblicazione del geologo Lamberto Ferri Ricchi, Oltre l’avventura – Misteri e meraviglie del mondo sotterraneo e sommerso, IRECO, Formello, 2001. Sul suo sito è disponibile la parte relativa al Lago di Nemi.

[12] Corrado Ricci, Gloriose imprese archeologiche : il Foro d’Augusto a Roma, le navi di Nemi, Pompei ed Ercolano, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo, 1927

[13] Guido Uccelli ne parlò in una conferenza al XI° Congresso Nazionale della Federazione dei Cavalieri del Lavoro, a Firenze, nel 1932. Il documento è consultabile online.

[14] Una descrizione minuziosa delle navi e dello sviluppo della tecnologia romana, anche per quel che riguarda le leghe metalliche, è disponibile online.

[15] La lettera dattiloscritta è disponibile online.

[16] Uno stralcio della relazione della commissione d’inchiesta sull’incendio al Museo delle Navi di Nemi.

[17] Lago diNemi: caccia alla terza nave romana, iniziate le immersioni, su Il Mamilio, 23 settembre 2016.

[18] Si tratta di un “Side-scan sonar”, un sonar in grado di emettere impulsi laterali e restituire immagini tridimensionali, e un “Sub bottom profiler”, uno strumento in grado di identificare la stratigrafia dei sedimenti del fondale (v. ARPACal).

[19] Nemi: identificata piccola imbarcazione nel lago, Osservatore laziale, 8 maggio 2017

Bibliografia

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